Roma – Il Liceo Azuni di Sassari premiato alla Presidenza del Consiglio dei ministri

Luigi Lai ci ha raccontato perché è diventato un maestro nell’arte di soffiare le “canne” e perché teme per il futuro di uno strumento che solo per miracolo non si è estinto dall’oblio eterno
Di Paolo Salvatore Orrù
Terra scura. Strade polverose in estate, fangose e umide in inverno. Donne e uomini che usano le parole con il contagocce, c’è troppo da fare per sopravvivere. Solo un giorno si canta e si balla e si beve senza pensare al futuro: quando c’è la festa del patrono. Allora, prete in testa, scortata dai Cavalieri la statua di San Vito Martire è portata a spalla a fare un giro in alcune strade strette e tortuose che odorano di mentuccia e petali di rose. Per essere adorata e glorificata con preghiere e il canto delle launeddas.
A San Vito il suono delle launeddas lo conoscono bene, a non farle sprofondare nell’inferno dell’oblio perpetuo è stato uno di loro, il ragazzino che faceva cantare i portoni. “I portoni sono stati il mio primo strumento musicale: sono nato nel 1932, nel 1940 (in tempo di guerra) in paese non c’erano tamburi, non c’erano fisarmoniche, tanto meno launeddas, non c’era nulla”, racconta adesso Luigi Lai. Lui, che i suoni li aveva sentiti nei giorni di festa comandata, non si arrendeva nemmeno all’evidenza di quel nulla. “Siccome io amavo la musica (e tutto ciò che suona), andavo a percuotere ritmicamente i portoni del paese, non per fare un dispetto a chi dormiva, ma perché certi loggiati rimandavano riverberi magici“, racconta il maestro, diventato ambasciatore della musica sarda nel mondo, Luigi Lai.

Un giorno, durante una festa paesana, Lai sente il suono delle launeddas. “Non sapevo cosa fossero, ma mi innamorai subito di quel suono“. I genitori vogliono il meglio per il loro figli, ma può essere il meglio diventare suonatore di canne? “Mi sa che questa cosa non s’ha da fare”, gli mormora la madre, che magari fantasticava di un figlio massaieddu o, perfino, studente in un collegio di pretini in quel di Cagliari. Lui però era stato invece sedotto irrimediabilmente dalle launeddas. I genitori hanno altri sogni per lui? Lui non molla, insiste, per mesi: “Voglio le launeddas, voglio le launeddas“. E l’erba voglio cresce qualche volta anche nelle case dei contadini di San Vito, soprattutto se innaffiata “con qualche battibecco e un po’ di pianto“. Padre e madre, probabilmente più stanchi che convinti, cedono. “Dopo un po’ di tempo, mi hanno accontentato, ma forse se avessi sentito suonare un violino la mia mia vita avrebbe esplorato altre vie“.
Laurea ad honorem a Bologna per Luigi Lai – Foto: pagina facebook Università di Bologna
Cominciò a emettere suoni subito, chiamare musica le sue primitive armonie sarebbe stato un po’ troppo. Si allenava giorno e notte. “Cavolo, la gente del vicinato si arrabbiava perché disturbavo, così ero costretto a provare a zufolare in campagna, un lavoro che tecnicamente portava a poco“. Tuttavia, se gli adulti protestavano, le ragazzine e i ragazzini del paese erano curiosi, così chiedevano di poter provare anche loro. Soffiando e sbuffando, Lai e gli amici organizzano un festival, una competizione con premio da cento lire. Vince facile. Così la gente, comincia a dire “ma quanto è bravo“, ride Luigino, “era gente che non capiva nulla“. Ci capiva un pochino un anziano mandolinista che nelle sagre paesane andava a strimpellare, per tirare a campare, antiche melodie sarde. Ed è proprio lui che, dopo averlo sentito, dice ai suoi genitori di “portarmi a studiare dal maestro Antonio Lara, uno dei due grandi suonatori di Villaputzu, l’altro era Efisio Melis”.
Laurea ad honorem a Bologna per Luigi Lai – Foto: pagina facebook Università di Bologna
Laurea ad honorem dall’Università Bologna per Luigi Lai Foto: pagina facebook UNIBOQuando la figlia del maestro Lara lo vide, rise, “ma è questo l’allievo?”: ero magrissimo, sembravo nato in Biafra. “Lui però mi prese subito in simpatia ed io percorrevo ogni santo giorno, prima a piedi poi in bicicletta, pioggia o sole non mi importava, i tre chilometri che dividevano San Vito da Villaputzu“. Da allora, “lui non mi ha mai mollato e io non ho mollato mai lui”, spiega Luigino. In quel tempo i più grandi suonatori di launeddas, i cognati Lara e Melis, appunto, vivevano a Villaputzu. “Melis, che forse era più bravo del mio maestro, mi avrebbe voluto con lui, ma io ero affezionato ad Antonio”. Lai, mentre imparava, aveva capito che Lara (più armonioso) e Melis (più tecnico) avevano stili diversi, ma anche la stessa conoscenza musicale. “Al mio stile non pensavo, avevo capito che l’importante era imparare, poi il mio personale tocco sarebbe sgorgato spontaneo come l’acqua dalla fonte”. Se chi deve imparare dice “questo è il mio stile vuol dire che non vuole più imparare”, così quando un allievo gli dice così lui gli risponde “se uno dice di avere stile non deve più andare a lezione“.
Fra una lezione e l’altra, finisce la seconda guerra mondiale. Le persone si rimboccano le maniche per affrontare al meglio la nuova realtà. Pensa solo a lavorare, non pensa più alle launeddas. Le radio inondano – raschiando e gracchiando – canzonette american style e ballo liscio, “e a noi suonatori di launeddas ci lanciavano pomodori: la gente che aveva sopportato le guerre del fascismo ora desiderava buttare giù tutto dalla torre, per rinnovarsi e narcotizzarsi con nuove speranze“. E le launeddas? “Loro hanno rischiato di scomparire, ora dico, con molta modestia, che probabilmente ho salvato dall’estinzione l’antico strumento dei sardi”.

Un miracolo, anche perché l’uomo del nostro racconto si era, ad un certo punto della sua vita, innamorato del suono di una fisarmonica sentita in una festa. Tant’è che tornato a casa aveva deciso di comprarla, anche se costava 34.000 lire. Una somma importante per il tempo. “Suonavo nelle feste, nei matrimoni, e dove mi chiamavano, così riuscii a mettere da parte i soldi necessari per l’acquisto”. Come da ragazzo con le launeddas, Lai prova da solo, ma suona male. Così, dopo aver provato con altri maestri, approda a Cagliari da Salvatore Pillola, un virtuoso della fisarmonica. Impara presto, impara subito, impara a leggere la musica (“grazie a questo ho salvato le melodie delle launeddas, che sennò si sarebbero estinte”). Ed è il tempo della raccolta. Si trasferisce in Svizzera. Impara a suonare il sassofono tenore, perché “un manager sardo preparatissimo” gli aveva detto che per poter vivere di musica saper suonare la fisarmonica non basta”.
E qui comincia un’altra storia. Bella anche questa. Perché la necessità lo costringe a frequentare Zurigo, dove c’è una accademia musicale. Si iscrive. Studia, e mentre studia capisce che tutto questo gli sarebbe servito per migliorare e conservare intatte le melodie delle launeddas, “perché questo è sempre stato il mio scopo“. Basta con la Svizzera, torna a casa. Si accorge subito che nell’Isola non c’era più nessuno che sapesse suonare lo strumento degli avi. “Solo a Santa Giusta (Or) c’era un signore ormai anziano che accompagnava le processioni“. Forse quel signore era Felicino Pili? Forse. Sicuramente gli organizzatori delle sagre conoscevano solo “questo vecchietto”, e dopo di lui, sostenevano, “non ci sarebbe stato più nessuno”.
Invece qualcuno c’era, e questo qualcuno era proprio Luigi Lai, che con un intuito fenomenale crea la prima scuola di launeddas. Gli iscritti al primo corso sono 104. È la resurrezione. Chiedere a Lai chi sono stati i suoi migliori allievi è come tentare di togliere un dente a chi non vuole. Serra la bocca, ma qualcosa gli sfugge: “C’è gente che crede di aver raggiunto la perfezione, crede di non dover più imparare, gente che mi dice: questo è il mio stile“, a questi Lai ribadisce, “vuoi imparare? Devi ubbidire, il maestro è un dittatore: io insegno tu impari“, altrimenti ci sono altri maestri, “ma da me l’allievo deve imparare il linguaggio, muovere le mani in un certo modo … fra i nuovi c’è troppa zavorra e la zavorra rischia di mandare a fondo i più bravi, la zavorra è il pericolo che corre uno strumento che sta rinascendo … il ballo sardo è musica, il ballo campidanese è un rito che si sta perdendo“. Insomma, alla fine di questa conversazione con Lai, resta un non so che di amaro.
La Sardegna sta operando con sale in zucca per salvare questa parte importante della sua tradizione musicale? “Ero docente al conservatorio di Cagliari, ma io non mi sono prestato a certi giochetti che favoriscono qualcuno a discapito di altri“. Non ci sta. Gli è piaciuto invece mettersi in gioco, confrontarsi con gli alti e i bassi delle note musicali emesse dai grandi maestri del jazz, con Paolo Fresu (“faremo una cosa assieme a settembre“), Enrico Rava, Enzo Avitabile. Novantuno anni e non dimostrarli: “Ora sto collaborando con Marcello Floris, un artista di Guspini, un compositore, forse faremo qualcosa assieme a Pabillonis, se il sindaco vorrà, stiamo aspettando una sua risposta”. Stanco? “Ecco, questa pandemia mi ha rubato molto tempo, a dicembre ho avuto una broncopolmonite, ho rischiato di andare dall’altra parte, mi sto rimettendo adesso“. Brutta storia: “Erano 15 giorni che non toccavo il letto, sempre distrutto, appoggiato al tavolo, mi hanno tirato su con 80 pastiglie di antibiotici“. Se non avesse fatto il musicista? “No, io sono nato per la musica. Io amavo il suono, anche più delle auto (ne ho avuto 17) “. “Mio padre? Era un minatore, le polveri gli hanno mangiato i polmoni, mia mamma mi ha allevato bene“.
Ha suonato in tutto il mondo, Brasile, Argentina, Inghilterra, Scozia, Iraq … in Giappone “mi hanno applaudito per dieci minuti con mani e piedi“. Siamo ai ringraziamenti: “Beh, ho girato un po’ dappertutto. Grazie a tutti. Grazie a Paolo Fresu, grazie a Angelo Branduardi (quello della ‘Fiera dell’Est’), con loro sono andato in tivù, quindi la gente ha rivisto le launeddas“.
Un po’ di paura c’è. “Ho paura, conoscere uno strumento non vuol dire solo saperlo suonare, lo strumento deve essere aiutato, ci deve essere una scuola che insegni soprattutto ad accordare l’ancia: avrei voluto creare una scuola regionale, ma la Regione non mi ha mai aiutato“. Non sorprende, per mostrare al mondo i giganti di Monte Prama, statue che hanno rivoluzionato la storia dell’Isola dei nuraghi, ci sono voluti molti decenni. La launedda non può però marcire nei musei, le sue canne hanno bisogno di respirare, di raccontare, soprattutto, di raccontarsi, perché sono quel che rimane delle antiche virtù musicali dei sardi.
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