Sassari – Scarlatti Project alla V edizione del Festival Note Senza Tempo


Tra gli anni 50-60 nella campagna conosciuta a Serramanna come Santa Luxèria sono state trovate le tracce di un cimitero di cui si era persa memoria. Il muralista e scrittore campidanese spiega la storia della stele di epoca vandalica ritrovata dopo decenni
di Paolo Salvatore Orrù
“Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi”, ha scritto Italo Calvino. Lo scrittore – un po’ sardo, un po’ ligure e un po’ cubano – aveva riassunto con poche ma chiarissime parole una filosofia dell’essere che lo ha accompagnato per tutta la vita. Una cultura che sembra aver affascinato Antonio Ledda, scultore, pittore, performer e scrittore di Serramanna, che si è ritagliato un futuro nella storia non solo con le sue opere ma anche con il recupero di una stele funeraria dedicata a Basilius.
Chi era costui? Sicuramente un signore d’altri tempi che era stato seppellito in un cimitero scomparso di Serramanna quando in Sardegna dominavano i Vandali. Una scoperta come tante altre? Non sembrerebbe, altrimenti perché quattro fra i maggiori archeologi sardi – Chiara Pilo (SABAP Cagliari), Attilio Mastino (Università di Sassari), Antonio Maria Corda (Università di Sassari) e Patrizia Olivo (Soprintendente SABAP di Cagliari) – si sono dati appuntamento in una sala del grosso centro agricolo campidanese per raccontare – moderatore Maria Grazia Medda – l’importanza di quel ritrovamento? Questa è, insomma, una storia merita di essere raccontata.
Maria Grazia Medda (sx), Antonio Ledda e l’archeologo Attilio Mastino (Foto Orrù)
“Tra gli anni 50-60 nella campagna conosciuta a Serramanna come Santa Luxèria o Santa Auxèria, a due o tre chilometri ad ovest del paese erano state trovate in superficie tracce di un insediamento umano di cui si era persa memoria: un affittuario – ha raccontato a City&City Ledda – per poter coltivare meglio i suoi carciofi, spianò un cocuzzolo di terra dove fu rivenuta una grossa anfora. Pensando che contenesse qualcosa di prezioso la frantumò scoprendo solo ceneri e terra”. Nei pressi di quel cocuzzolo c’era anche una grossa pietra piantata in verticale nel terreno, un cippo o un menhir, che indicava un luogo di culto o un insediamento molto più antico.
“Dopo aver scavato un fossato attorno, – ha detto Ledda – la pietra fu legata con un cavo in acciaio e trascinata al bordo del campo da un trattore, ridotta in piccoli pezzi fu utilizzata assieme ad alcune lastre tombali per sistemare la strada di accesso al campo”. Molte cose che potrebbero essere interessanti per la storia di un popolo vengono distrutte per ignoranza. “Durante i lavori di aratura e fresatura furono scoperchiate anche diverse tombe, che un paesano, allora ragazzino, mi raccontò di utilizzarle per giocare a nascondino. Alcune erano coperte da tegole piatte in terracotta, ma anche da lastroni in pietra e marmo e al loro interno furono ritrovati diversi scheletri che a contatto con l’aria si sfarinarono con facilità”, ha spiegato ancora lo studioso serramannese.
Tutti, nel bene e nel male, facciamo parte di una storia infinita, che ogni tanto fa capolino per ricordarci da dove veniamo. “Alcune persone, confrontando le ossa ivi rinvenute: femori e tibie con le loro articolazioni, riscontrarono che non dovessero appartenere a gente del luogo, ma a una sorta di giganti di un’altezza anche superiore ai due metri”, ha spiegato Ledda: “Nel luogo vennero rinvenute diverse pietre forate e macine, monili e monete di diversi periodi di cui alcune non perfettamente rotonde e di grosso spessore che portavano l’effige di una testa della dea Tanit con il retro raffigurante la testa di un cavallo. Altre riportavano un cavallo completo di profilo, simbolo di Cartagine. Sul retro era riprodotta una palma con i suoi frutti che rappresentava la fertilità, di chiara origine punica (300-264 AC). In altre, mal ridotte e di piccolo taglio, erano presenti scritte che coronavano le teste viste di profilo, sicuramente di imperatori dell’antica Roma. Un ultimo tipo era sottile come se fosse di lamiera, leggibile e di chiara appartenenza al periodo bizantino”.
Parafrasando Bernard Baruch, tanti hanno visto le mele cadere dall’albero, ma solo Newton si è chiesto perché. “Le monete, che ho esaminato personalmente presso lo stesso possessore, fanno supporre che l’insediamento fosse abitato dai sardi molto prima dell’arrivo punico, romano o bizantino, lo dimostra l’esistenza di un nuraghe ormai completamente demolito, come scrive anche Giovanni Battista Melis nel suo libro “Serramanna – Cenni di storia sugli insediamenti e il territorio”.
Nell’area, sparsi qua e là, agli inizi del secolo scorso erano ancora visibili le fondamenta in pietra di muri perimetrali di una costruzione semplice a pianta rettangolare, forse un edificio di culto, come del resto lo stesso toponimo della zona ci suggerisce. “Si racconta anche di una statua litica rinvenuta sul posto, che fu fatta rotolare fino a un fossato al centro del campo scavato per attingere l’acqua che serviva per innaffiare”, rivela il muralista. In seguito, proprio in quella zona, fu ritrovata la lastra tombale intestata a Basilius, che può essere datata tra il 460 e il 600 DC, a cavallo tra la fine del periodo vandalico (456/534) e gli inizi del periodo bizantino (534/ 900). “Tutt’oggi di quell’insediamento, che abbraccia una vasta zona, dell’area cimiteriale e delle fondamenta della chiesa non esiste traccia visiva in superficie, tranne che per alcune pietre di costruzione che delimitano il confine tra i campi o la suddivisione delle proprietà”.
Tuttavia durante i lavori periodici nel terreno, spesso riaffiorano cocci di vasellame e pezzi di tegole (embrici) usate per seppellire i morti. La lastra tombale intestata a Basilius incisa sul marmo bianco forse non locale, di cm. 57×60 e di cm. 4 di spessore, venne tradotta nel 2000 dal professore Mastino, ex Rettore dell’Università di Sassari. “Basilius, è un nome unico di origine greca, documentato anche nell’isola, dove esistono paesi, chiese e località. E ancora oggi in paese alcune persone portano questo nome. Il terreno in cui è stata ritrovata la lastra si trova sulla destra (a circa un km.) della via detta “sa bia de Castedhu”, che parte dall’incrocio all’altezza de sa Funtà Pubbrica e va verso sud, in direzione di Villasor. La stessa Fontana Pubblica dove in passato la cittadina di Serramanna attingeva l’acqua potabile, e dove oggi si erge una torretta in cemento, proprio in quel punto si dice si trovasse un pozzo sacro con una fonte d’acqua perenne”.
A Santa Luxèria – ha scritto nella sua relazione Ledda – furono trovati tanti altri reperti archeologici che confermano un grosso insediamento umano nella zona e che si allarga anche nei terreni confinanti e di alcune aziende. “Dei luoghi in questione, negli anni 50/60, arrivò segnalazione anche alla Soprintendenza di Archeologia e Belle Arti di Cagliari, ma purtroppo, si diceva, non fu trovato niente di interessante da approfondire. Forse gli esperti arrivarono troppo tardi, come in altri casi, perché i contadini e i proprietari, per paura di vedersi sottratti i terreni, ricoprivano il tutto, nascondendo le tracce della nostra storia”, suggerisce Ledda.
In seguito parecchie di queste tracce e reperti sono andati distrutti o triturati da frese e aratri meccanici. Perché, rubando parole ad Antonio Gramsci, “la storia insegna, ma non ha scolari”. “Un tempo – garantisce Ledda – quando si facevano scoperte del genere, nonostante la gravità delle profanazioni, si aveva più rispetto e timore degli avi, dei loro culti e dei luoghi sacri. La storia di questo ritrovamento è uguale a quello di tante altre volte. Dei proprietari che arando un loro terreno con il nuovo trattore, restano sorpresi di quanto la pala dell’aratro portava in superfice. Qualcosa che prima, il loro genitore, col cavallo non era riuscito a portare alla luce, anzi trovando delle difficoltà aggirava quel punto per evitare che la pala dell’aratro restasse impigliata nell’ostacolo”.
La lastra di Basilius fu nascosta sotto un ponte, solo dopo qualche anno fu portata a Serramanna, dove rimase sepolta in un cortile tra terra e erbacce. “Ed è qui che è stata ritrovata. Mi sento in dovere pertanto, di ringraziare senza nominarlo, ora non più tra noi, colui che mi ha permesso di far arrivare la lastra fin qui così come lui l’aveva trovata. Un grazie anche alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Cagliari, che ci ha dato la possibilità di ricostruire una parte della memoria di questa comunità”.
Ecco cosa c’è scritto nella lapide:
(Croce greca)
Hic iacet ben [ e memo] – rie Basilius qui bixit [ annis ] plus minus cinquagi [nta]
cinque et requiebit in [ pace ] octaba decima d [ ie?]
martii, die Mart [is?, ind (ictionis)] secunde
(Croce greca).
L’epigrafe definita tipica delle iscrizioni cristiane della Sardegna del V e VI secolo D.C., è forse di epoca vandala o risalente al periodo tra la fine vandala e la prima era bizantina. A forma di croce dice più o meno: “Qui giace e riposa in pace Basilius di buona memoria che visse più o meno 55 anni, diciottesimo giorno di marzo – martedì indizione seconda”. “La storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore” (Malcom X).
La giornata di studi è stata voluta dal gruppo archeologico Perdafitta e patrocinata dal Comune di Serramanna.