Sua altezza Gianni Maroccolo
Il bassista toscano presto in Sardegna per presentare il suo nuovo LP live. Vivo… come lui
«Chiamami pure al fisso» dice con l’inconfondibile accento toscano.
Dal mezzo digitale si passa all’analogico. La voce è calda, la disponibilità massima. C’è da chiacchierare d’un disco. Di più: di una storia di vita, musica e incontri di cui Nulla è andato perso. Gianni Maroccolo, uomo, bassista, artista. Lo scorso 4 marzo, a Firenze, l’album live Nulla è andato perso si presenta in anteprima nella storica sede del negozio di dischi Contempo. Quel giorno Attilio, IL basso, ha preso possesso di una teca proprio in via dei Neri. Il 7 marzo quel triplo Lp dal vivo che sa di magico ha preso il volo e il largo verso gli scaffali dell’Italia intera.
Rewind. Marok aveva da festeggiare 30 anni di carriera. Soluzione? Un tour auto prodotto assieme a Enzo Onorato che nel 2016 ha accarezzato la penisola ed è approdato in Sardegna a Cagliari, Oristano e Sassari. Non per voglia di protagonismo, anzi. Maroccolo è il fine narratore del racconto, accompagnato da Antonio Aiazzi, Andrea Chimenti, Simone Filippi e Beppe Brotto lungo un armonico, graffiato e autentico percorso fatto di persone, parole scritte e note suonate.
Persone, importanti, come Claudio Rocchi, che assieme a Gianni Maroccolo ha dato suono all’album vdb23 / nulla è andato perso: l’artista è prematuramente scomparso, la sua opera – come d’uopo – esiste ed è filo conduttore dell’idea diventata concerto diventato album diventato storia. La storia. Storia in musica che si intreccia con quella dei Litfiba, dei Csi, di altri ancora. Il prossimo 7 aprile Marok e Nulla è andato perso si racconteranno alla città di Sassari, nel corso di un incontro aperto organizzato da Eventi6 Associazione Culturale negli spazi del ristorante Covo del Conte.
Nulla è andato perso: cosa è stato, cosa è rimasto?
«Rimane il forte legame con Claudo Rocchi e l’esperienza di vita in comune vissuta in gran parte in Sardegna. Rimane la soddisfazione di aver cominciato questo viaggio un anno fa ripercorrendo anni di incontri assieme a Chimenti, e Brotto, Filippi e Aiazzi. Artisti amati, la nostra musica partendo dagli albori e arrivando ai giorni nostri, a vdb23. Rimane la chiusura di un ciclo. Ho preso consapevolezza e atto che, dopo anni di musica insieme e gruppi rivelatisi a posteriori abbastanza importanti per la musica italiana, in qualche modo rimandavo questa esperienza, e sono partito in solitaria. Un’emozione. Nella vita di gruppo si sommano le creatività ed è un gioco bellissimo se tutti si è poi capaci di capire che fare insieme significa spesso fare passi indietro e non puntare sempre al meglio di sé. Fondamentalmente, arrivato a 55 non c’è più l’intenzione di ripartire da zero come ai tempi di Csi e Litfiba: sono cose che accadono, sono accadute. Altre accadranno».
Invece Attilio?
«L’Attilio, compagno di musica dal 1984. Era il mio altoparlante, metteva in note le idee che mi frullavano dentro. Un compagno fedele, ne abbiamo fatto di cotte e di crude. Due tre volte il suo manico si è spezzato. Al tempo dei Litfiba c’era tanto sesso, droga e rock n’ roll, sui palchi vedevi spesso batterie rotolare per terra e bassi volare, anche Attilio. Si è rotto, l’ho aggiustato ma continuare a restaurarlo, sostituirne alcune parti sarebbe stato snaturare lo strumento, mutarne il suono, e il significato. Da anni i collezionisti gli facevano la corte. Per non scendere a mediazioni con nessuno ho scelto di metterlo deciso all’asta. Siamo stati travolti da una rivoluzione affettiva sul web, un crow founding spontaneo che prevedeva, raggiunta la cifra prefissata, che Attilio tornasse a casa. Alla fine, ad accoglierlo, è stata una teca all’interno dello storico negozio Contempo, etichetta dei primi Litfiba. Bello sia lì, per me. Per tutti».
La tua Firenze?
«A cavallo fra ’70 e ’80 a Firenze come in altre parti d’Italia c’è stato una sorta di ribaltamento collettivo. Un uragano emozionale dove tutto era possibile, tutto si poteva resettare a zero e ripartire. Si suonava nelle cantine, aprivano locali, radio e etichette indipendenti. C’erano i Diaframma e tanti altri gruppi, manager, grafici, comici come Hendel e Benigni, il teatro sperimentale. Accadevano cose meravigliose. Ogni sera incontravi artisti nuovi, per suonare non occorreva essere super tecnici, bastavano due accordi. Allora nacquero i Litfiba. Respiravamo quell’atmosfera, suonavamo a Firenze, in Italia, in Belgio, Francia e Olanda: non ci fermava nessuno. Tutto è durato una manciata di anni a Firenze, poi un discreto periodo di oscurantismo e ora, da due tre anni, qualcosa si sta risvegliando e le avanguardie scalciano per dare visibilità alla proposta. Firenze mi ha accolto da ragazzo e ospitato sino ai 30-35 anni. Poi sono tornato a Livorno, vicino al mare che amo. E poi ho la Sardegna davanti».
Incontri, s’è detto. Tanti. Cosa ti hanno lasciato?
«Il nostro presente è frutto e somma del nostro passato, di ciò che siamo stati, del vissuto e dei grandi incontri fatti. Credo che tutto questo non sia facilmente codificabile, non so cosa e quanto è rimasto in me, ma fuori discussione è che i momenti di vita condivisa, artistica e quotidiana, fanno parte di me e sono dento il mio presente. Sono condizionamenti in positivo, mi hanno migliorato e questo vale, credo e spero, per tutti coloro con cui ho collaborato. Io ormai mi sono riappacificato nella vita, ho eliminato le negatività, non ce l’ho con nessuno e serbo solo bellissimi ricordi».
Chi è il Marok musicista?
«Molti mi definiscono un alchimista, io mi sono pian piano abituato a pensare che ci sia davvero qualcosa di alchemico nel mio rapporto con la musica. È come se fossi un cane solitario e randagio che va in giro anche nei postriboli meno abbaglianti e poi trova un branco giusto, gli piace, ci sta per un po’, poi torna a girovagare sino al prossimo incontro. Questo vale per il Maroccolo musicista e essere umano. Acau è stato un disco solo strumentale ispirato al concetto di profondità. Dopo qualche mese mi mancava la voce e una sera scrissi 14 lettere ad altrettanti artisti invitandoli a collaborare. Tutti e 14 dissero di si: s’è viaggiato in branco per un breve periodo, poi ognuno è tornato a fare le sue cose».
I tre live sardi di Nulla è andato perso sono stati aperti da tre artisti emergenti, Igor Lampis, Andrea Andrillo e Pasquale Demis Posadinu: li hai elogiati e sei in contatto con loro. Quanto è importante dare un chance a chi ci prova?
«Sono cresciuto in un periodo in cui si condivideva tutto. Incontravi musicisti più avanti di te che ti consigliavano, entravi a vederli suonare in studio e nessuno ti sbatteva la porta in faccia, non c’erano segreti da preservare solo scambio esperienza. Da tempo mi metto in gioco sui social e sul web, senza fake o addetti alla gestione dei miei profili: lo faccio al 100%, passo ore ad ascoltare nuove cose, a scambiare mail, visionare provini e dare consigli se richiesti. Nel caso specifico le tre date in Sardegna hanno avuto un significato importante per me che sull’Isola ho passato i primi anni della mia vita. È come fossi nato lì e lì ho acquisito, fortunatamente, un certo tipo di mentalità e principi. Mi ha fatto piacere avere tre artisti sardi ad aprire i miei concerti, mi sono piaciuti tutti e tre realmente come persone e per i loro progetti pur se abbastanza o apparentemente lontani. Li seguo con affetto, mi piace quel che fanno, ho visto che hanno lavorato anche assieme e io mi sono…messo a disposizione. La cosa pazzesca, ai tempi d’oggi, è che per me questa è l’assoluta normalità».