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La comunità educante: nuovi occhi per guardare il mondo
di Antonello Unida
Garante dei diritti delle persone private di libertà
La Comunità educante in carcere ha un ruolo fondamentale per la ‘formazione umana’ della persona e vere la certezza del recupero
Buona sera Amiche ed Amici miei, eccoci al sesto incontro. Oggi desidero ragionare a voce alta insieme a tutti Voi, su questo termine:
Comunità Educante.
Non solo la scuola, deve formare i cittadini di domani, anche la rieducazione in carcere, deve avere questa finalità.
Io mi chiedo, qual è l’idea di persona, di cittadino, che deve uscire dal carcere?
Quali sono i metodi, le pratiche, le azioni che devono essere attuati da tutti, operatori istituzionali e non, per raggiungere questo importante obiettivo?
Perché il carcere sia una COMUNITÀ EDUCANTE, (e non solo Penitenziaria) tutti gli attori, volenti o nolenti, devono condividerne l’orientamento e il progetto generale, indipendentemente dalla propria provenienza professionale e/o culturale, poi ciascuno con la propria specificità, contribuirà al raggiungimento di questo obiettivo in vario modo: attraverso la formazione, l’istruzione, la religione, le attività culturali, il lavoro, il sostegno psicologico, i progetti educativi, la tutela della sicurezza.
Declinare la rieducazione in carcere, insistendo pervicacemente sull’accezione di educazione alla cittadinanza e avendo chiara l’idea di “cittadino” cui orientarsi, può essere utile ad evitare la schizofrenia di un sistema che propone una cosa, e ne compie un’altra.
C’è veramente poco, ad oggi, nella Struttura di Bancali, il richiamo alla “Comunità Educante”, veramente poco. Secondo me in primo luogo perché, 3 o a volte 5 educatrici, sono veramente poche, per le 500 Persone detenute; secondo per l’ineliminabile (in parte) discrasia tra cura e custodia, che rende questo posto strutturalmente schizofrenico.
Io ne sono fermamente convinto: si possano ridurre notevolmente i danni indotti dalla privazione della libertà personale se c’è un progetto chiaro e una formazione conseguente.
In carcere, anche qui a Bancali, ci sono persone che hanno un grave problema con il rispetto delle regole, e infrangendole hanno commesso reati gravi e spesso irreparabili.
Ci sono persone detenute il cui percorso, educativo e formativo, è stato estremamente carente, che hanno conosciuto modelli di vita basati sulla sopraffazione e la violenza; che hanno scelto sì, il modo in cui vivere, ma in uno spettro di possibilità estremamente ridotto, in cui la sola vita che aveva senso vivere, era la “bella vita” di soldi facili e potere.
Per questo credo che il carcere debba essere il posto dove queste persone possano trovare un nuovo modus operandi, un luogo dove acquisire nuove conoscenze.
Per il momento sono pochissime le persone che ho visto prendere le distanze in modo autentico da ciò che sono state . Certo il percorso non è stato semplice per loro anzi, il momento in cui si comprende pienamente quanto tempo è stato buttato nella vita è estremamente doloroso.
Il cambiamento che ho visto con i miei occhi è iniziato quando ai detenuti è stata data la possibilità di scoprire nuove passioni, talenti e linguaggi, perché, diciamolo chiaramente: come si fa a pretendere che un individuo che sta tutto il giorno chiuso in una sezione a ciondolare, possa rivedere criticamente il proprio passato?
Sono fortemente convinto che il percorso rieducativo debba necessariamente procedere dal futuro al passato: non si tratta infatti di cominciare da una presa di distanza rispetto al passato mettendo in crisi la sua visione del mondo, per prospettargli nuovi stili di esistenza
Il giusto intervento rieducativo deve procedere in direzione opposta.
Il lavoro rieducativo non può partire dal passato dell’individuo pretendendo che egli ne prenda le distanze, questo semmai è il punto d’arrivo.
Si tratta di analizzare bene la personalità dell’individuo nella sua unicità, facendogli fare nuove esperienze per aprirgli lo sguardo verso nuove possibilità: orizzonti diversi e diverse, impensate prima, forme di esistenza.