
Don Luigi Verdi, 64 anni, è il fondatore della Fraternità di Romena nell’Alta Valle dell’Arno tra Arezzo e Firenze, una comunità di accoglienza nata intorno alla Pieve romanica del 1152 con lo scopo di incontrare i viandanti dei nostri tempi in cerca di conforto e di sé stessi
Don Gigi, ospite e relatore nei giorni scorsi a Sassari di “HIV/AIDS e territorio – Corso per la prevenzione e la formazione” diretto da Padre Salvatore Morittu e organizzato da Mondo X con la casa famiglia di Sant’Antonio Abate, parla di sé, della vocazione, di Dio e del perché viene definito un prete fuori dal comune
È solo una battuta della gente, io non lo sono. Anzi, il problema è che non esistono preti normali, quelli con troppe strutture addosso. Più i sacerdoti sono semplici e più sono veri e piacciono alle persone. Lo diceva Papa Giovanni: Ciò che è naturale racchiude il divino. Io mi sento normale, non fuori ma dentro alle vite degli altri.
Nella sua comunità affronta il dolore di tanta gente. Come riesce a rapportarsi con la sofferenza?
Sono attento al dolore degli altri perché prima l’ho patito io. Nel 1991- ero sacerdote da sette anni – sono stato male e ho deciso di partire vivendo per mesi coi campesinos in Bolivia e poi nel deserto algerino. Prima di tornare in Italia ho attraversato la vera crisi perché volevo aiutare chi soffre ma non potevo esserne in grado senza prima capire la mia sofferenza.
E i motivi erano la mia terribile timidezza e le mie dita tagliate, il piede che cammina un po’ alla bona. Ho queste malformazioni perché mia madre aveva preso il talidomide, una medicina che assumevano le donne incinte negli anni 1958-64 contro la nausea del parto e che causò la nascita di migliaia di bambini senza braccia e gambe. Da bambino mi buttavano in spiaggia col costumino e tutti a girarsi e dire, “Guarda questo zoppo, questo monco”, finché non dissi basta.
Trovai un salmo: la pietra scartata è diventata la pietra angolare. Perché le due cose più schifose di me, mi chiedevo, non possono diventare le parti migliori? Così mi sono costretto a guardare negli occhi le persone, tremavo, diventavo rosso ma non scappavo. Poi ho scoperto la bellezza anche in queste mie mani creando icone coi forconi, le zappe, gli strumenti dei contadini. In questo modo ho trasformato una maledizione in un’opportunità.
Una delle parole chiave del suo pensiero è ‘fedeltà’.
Fedeltà non vuol dire solo non tradire l’altro. La parola ebraica significa ‘non scapperò‘. Il rischio oggi con questa modernità imbecille è che se c’è una crisi scappi, hai una difficoltà e fuggi, ma non si può mai fuggire, tanto meno dagli occhi di Dio. E a me garba Dio da impazzire perché non è prepotente, non ti vuole possedere. Ti lascia libero quanto ti pare. È come con il figliol prodigo, Lui ti aspetta. Puoi sbattere il capo nel muro e Dio ti aspetta.
Perché sono ritornato a fare il prete? Una notte nel deserto in Algeria, una delle ultime notti, ho pensato sotto le stelle: se vado via non tradisco la gente, il vescovo ma me stesso, la mia parte più profonda, quella dell’inizio della mia vocazione. E ho capito che Dio era sempre stato al guado ad aspettarmi, dicendo: “Prima o poi apri gli occhi”.
Una delle figure più interpretate e dibattute è quella di Gesù che lei cita spesso. Chi è per lei?
Il numero uno. Quando vado agli incontri ecumenici faccio arrabbiare gli altri perché dico: “Non ce la potete fare. Gesù è troppo avanti”. Perché è più induista degli induisti, più buddista dei buddisti, più ebreo degli ebrei.
Non si è fatto mai corrompere da nulla, soldi, potere, vanità, neanche dall’emozione quando la Maddalena lo trattiene e lui le risponde: “Lasciami libero”. Io non mi sono innamorato dell’idea di Gesù ma dei suoi gesti, di come piangeva, camminava, lavava i piedi agli amici, di come toccava la bara – e lì mi fa piangere – del bambino morto della vedova di Nain.
Lei incontra nella Pieve spesso persone che stanno per morire. Come si comporta?
La cosa più alta della vita è addolcire la morte di chi sta per andare via. Io odio la morte, come Gesù, ma amo chi muore e chi sta vicino a chi muore. A loro non posso spiegare nulla se non stai lì, in silenzio perché il rischio è dire cose stupide, dare false speranze.
Si mostra sempre severo con la nostra modernità.
Da 70 anni viviamo a ritmi folli, non si è mai campato così. Ci rendono tutti esauriti dividendoci corpo, mente e anima ma, soprattutto, lentamente questa modernità ha ucciso tre cose: bellezza, tenerezza e gioia. Ma di cosa abbiamo realmente bisogno, noi, i malati di AIDS, chi soffre? Un pezzo di pane, un po’ d’affetto e un posto dove sentirsi a casa. Ma quello che mi addolora di più oggi sono i giovani. Per loro il futuro è una minaccia, e non un’opportunità, vivono di attacchi di panico e noia.

Padre Morittu, organizzatore e direttore del Corso, interviene proprio sui giovani, tema che gli sta molto a cuore, anche in relazione ai tanti tentati suicidi che si sono registrati in città negli ultimi tempi.
Hanno un bisogno di amore che riescono a immaginare solo con quello che loro in gergo chiamano lo “sballo”. Andare cioè oltre il possibile per abbracciare una realtà che per loro rappresenta il piacere sommo, l’esperienza più intensa.
Quando si avverte tutta la drammaticità dell’incompletezza di questo desiderio, che non raggiungeranno mai, a loro rimane purtroppo l’altro grande amore, quello del non esserci, l’andar via, lo scomparire. Tutto questo processo mette in luce la nostra inadeguatezza di adulti a dare risposte adeguate.
Cosa manca nella comunicazione, anche quella religiosa?
Mancano quei momenti in cui si può uscire dalla banalità del quotidiano, e anche di certi sentimenti, per fermarsi nel silenzio a interrogare profondamente sé stessi. Facendolo in una dimensione che dobbiamo riscoprire, bloccando il ritmo veloce delle cose, per sedersi e contemplare.
In realtà non mancano i valori, manca la comunicazione dei valori, viviamo in una realtà di vita tutta artificiale dove creiamo cornici ma non quadri.
Don Luigi ha parlato di cosa succede quando si è vicini al trapasso. Cosa può raccontarci della sua esperienza, di quando ha rischiato di morire a causa del Covid?
Ho pensato di consegnarmi a Dio e a coloro che volevano in qualche modo curarmi. Quest’atteggiamento mi ha portato a superare l’angoscia e la rabbia di trovarsi nella condizione terribile di stare sotto un casco e due motori.
O ti crei una nuvola nella quale puoi ragionare con lucidità con te stesso, nel mio caso con Dio, altrimenti l’impazzimento è inevitabile. Ma Dio mi ha risposto e mi ha fatto capire che quella strada era giusta e mi ha riportato qui.