Padre Salvatore Morittu: «Ragazzi, innamoratevi di voi stessi!»
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«Sono un frate felice, anche se Dio con me è stato un umorista»
Un cancello aperto come due braccia spalancate è la prima cosa che vediamo arrivando alla comunità S’Aspru. Prima ancora del verde, prima della dolcezza delle campagne di Siligo, prima del profumo di terra ed erba, di camino e antiche case di paese, prima del silenzio interrotto ogni tanto da conversazioni lontane, sono quelle due braccia forti, paterne e schiuse che ci accolgono all’interno del loro mondo vivifico. Coloro che decidono consapevolmente di diventare una parte di questo mondo, accettano di iniziare un percorso rigoroso, autentico e concreto di recupero della propria dignità di essere umano attraverso regole di complessa semplicità; la stessa complessa semplicità che esprime Padre Salvatore Morittu. Sono già passati 36 anni da quando, con dedizione e determinazione, fondò nel 1980 la prima comunità di recupero a Cagliari aiutando in questo modo le persone in difficoltà a ritrovare la forza per tracciare la propria strada verso una seconda opportunità. Un lavoro difficile, innovativo e pionieristico che è in grado di darci la reale misura delle diverse sfaccettature di un uomo sorprendente che ancora adesso dedica interamente la propria vita a questo progetto. Uomo pragmatico e uomo di spiritualità, figlio di pastori e frate francescano, uomo di religione ma anche di scienza, biblista e psicologo, legato fortemente alla Sardegna ma con importanti esperienze formative al di fuori della nostra isola, Padre Morittu riesce a trovare la sintesi di se stesso in ciò che costruisce ogni giorno.
Come convivono in lei tutti questi aspetti in apparenza così diversi tra loro?
Sono un frate felice perché ho avuto tante opportunità nella vita. Questi ragazzi hanno fatto veramente sintesi della mia persona. Hanno reso possibile che si potesse realizzare l’effetto laser, cioè che tutte le energie, tutte le consapevolezze di questi diversi saperi, si concentrassero in un unico obiettivo: aiutare delle persone a diventare uomini. Mi è servito il sapere psicologico, il sapere biblico, così come le fondamenta originarie di figlio di pastore. Ogni cosa mi è stata utile e soprattutto questa sintesi ha trovato la sua stella polare, se così possiamo dire, nell’idea che io dovessi essere “padre”. Questi ragazzi hanno bisogno del padre, di una figura paterna che riesca a stargli affianco nonostante la fragilità emotiva, psicologica ed esistenziale che gli è propria. Da questo punto di vista io credo di essere un uomo fortunato. Naturalmente – e non lo dico per un formalismo dovuto all’abito che indosso – Dio è stato molto importante e ha fatto la sua parte. Perché potete ben immaginare che convivere con queste persone è una cosa di una tale complessità umana che talvolta ti viene la tentazione di mollarli, di metterli al muro. È stato spesso umorista questo mio Dio perché prima mi ha fatto affascinare, innamorare attraverso delle cose certamente complesse ma che sono diventate col tempo sempre più difficili e più impegnative. In quel momento però, avendo già innestato quel sentimento importante che si chiama amore, si riesce ad affrontare anche ciò che non era stato previsto.
Sono persone che portano con sé un vissuto doloroso, che vengono da realtà pesanti. Come si affronta tutto questo senza esserne travolti?
Per affrontare una realtà come quella di questi ragazzi servono due pilastri: amore e progetto. L’amore me lo insegna Dio ma me lo insegnano anche i loro genitori. A volte io stesso non capisco come riescano ad amarli in modo così incondizionato. L’altro aspetto è il progetto, perché è necessario un percorso ben organizzato in cui far camminare queste persone. Spesso è proprio il progetto il pilastro che è venuto a mancare all’interno della vita familiare ed è questo che le famiglie possono imparare da noi. Amore e progetto devono camminare insieme. Se c’è solo l’amore prima o poi si trasformerà, come diceva Freud, in odio poiché l’odio non è altro che un amore deviato. Se l’amore rimane solo amore non sarai capace di reggere. Dopo un po’ odierai queste persone. Non ne vorrai più sapere. E’ un’esperienza che hanno fatto anche tanti volontari. Se al contrario non c’è amore, il progetto da solo diventa una fredda clinica, un’impresa sociale senz’anima e per questi ragazzi sarebbe un guaio. Il loro non è un male solo fisico o psichico: è un male dell’anima. Mettere insieme amore e progetto mi hanno fatto diventare padre.
Che genere di padre?
Devo utilizzare del padre esattamente le caratteristiche negative che un padre non deve avere. Devo essere, ad esempio, una persona distante. Io non sono il padre carnale. Devo far comprendere loro che il padre carnale c’è e dobbiamo rispettarne la figura. Questa distanza è positiva nella misura in cui devi affrontare situazioni dove la paternità e la maternità biologiche rischiano di essere inadeguate quando in alcune cose dobbiamo proprio inchiodare i ragazzi alle loro responsabilità. Altra caratteristica è la diversità. Sono quanto di più diverso ci può essere apparentemente dall’essere padre, avendo addirittura scelto di non sposarmi, di non avere famiglia, di votarmi all’essere frate. La mia è una forma di paternità diversa che mette però in campo altre ricchezze. Infine c’è la separatezza. Questo è un luogo separato. Non ci sono droghe, né alcol, né soldi. Eppure abbiamo avuto il coraggio di mettere una targa che porta scritto “terra di incontri” . La separazione rende possibili gli incontri più veri. Spesso in questa realtà bisogna giocare sul paradosso. Ti aspetti una cosa e ne arriva un’altra. Essere separato per essere convivente.
Qual è stato il momento più difficile nella realizzazione di questo progetto?
Tra le cose più difficili c’è stato l’elemento di novità. Noi frati abbiamo sempre vissuto con la gente ma, nell’esperienza del francescanesimo in Sardegna, non era mai accaduto che si sposasse un aspetto così socialmente vivo ma non legato direttamente alla chiesa, alla sagrestia, al convento. Era qualcosa che ti esponeva totalmente ad una realtà che fuoriusciva dalla modalità classica di esprimere il proprio sacerdozio e quindi si trattava di inserirsi in un’assoluta novità. Questo scandalizzava. Non posso negare che le prime difficoltà le ho trovate coi frati, con uomini e donne di chiesa, con uomini del sapere medico, scontrandomi con queste realtà che per altro amavo tutte. Amavo i frati, la gente che professa il proprio cristianesimo, anche il sapere medico psicologico mi intrigava poiché ne facevo un po’ parte anche io.
Una sorta di rifiuto da parte di tutto ciò che la rappresentava?
Riuscire a pensare che un convento potesse essere la casa degli eroinomani, che un frate potesse aiutarli vivendo con loro, che loro stessi avrebbero potuto avere interesse a vivere con un frate e secondo una modalità di vita molto diversa da quella di chiunque, indubbiamente creava una difficoltà. L’altro aspetto molto difficile è stato riuscire a mettere in comune un vocabolario con i ragazzi, non nel senso nudo e crudo di intendersi sulle parole ma di creare un contatto di cultura, di sapere, di sentire. Io, la mia generazione, quella precedente, noi tutti siamo figli di bisogni: pane, vestiti, scuola, salute. Questi ragazzi non sono figli dei bisogni, sono figli dei desideri. Riuscire a navigare in questo spazio di desideri che non riesci, se non banalmente talvolta, a percepire, è difficile. Ti ci devi catapultare dentro perché altrimenti non sei in grado di capire ma allo stesso tempo devi lanciare il messaggio che sei altro da questo. Fare il biblista sulla cattedra, fare lo psicologo nel tuo studio è certamente difficile però ti trovi in un contesto che ti difende da tante cose. Fare il cristiano, il frate, lo psicologo, in mezzo a questa realtà, nel quotidiano, costantemente, comporta per forza di cose un’altra modalità di viversi e di proporsi.
Bisogna quindi immergersi nelle vite di queste persone, dedicarsi completamente?
Certo, ma anche e soprattutto far capire che questo percorso è una cosa importantissima ma non è l’unica. Anche le altre persone sono importanti e meritevoli di attenzione. Altrimenti il pericolo è quello di alimentare il narcisismo dei tossicodipendenti. È fondamentale affiancarli facendogli capire che la realtà dell’umano è anche oltre e loro non la esprimono tutta.
Questo è un luogo protetto. Ma dopo che succede?
Il dopo dipende dal durante. Qua arrivano persone disperate che hanno desertificato la famiglia, hanno perso il lavoro, hanno vissuto situazioni pesanti dalle quali in qualche modo questo ambiente li protegge. Nello stesso tempo questo luogo che li protegge non è comprensibile. Diventa un luogo disumano e liberticida se non comprendiamo la ragione apicale che può giustificare questa condizione di vita quasi antidemocratica. La ragione è solo una e ci credo talmente che non mi vergogno di compiere azioni che in un altro contesto, fuori, verrebbero considerate contro la libertà della persona: l’idea di riuscire a farli innamorare di se stessi. Prendere i loro occhi e rivoltarli verso il proprio interno. Non si amano. Se si amassero si saprebbero difendere nella loro dignità di esseri umani. Il mio grande tentativo è proprio di farli innamorare di se stessi ecco il perché di una paternità cruda, difficile.
Quanto tempo è necessario perché percorso giunga al termine?
E’ dal 1980 che mi occupo di questo e ancora non so quanto tempo ci vuole a recuperare uno di questi ragazzi. Anche se servirebbero, ho rifiutato i soldi della Asl, proprio perchè mi impone delle tempistiche. Il percorso dei ragazzi è autentico e personale e si snoda attraverso il riempimento tre contenitori. Un contenitore si chiama formazione: devono conoscersi, tramite colloqui individuali, dinamiche di gruppo, percorsi con lo psicologo o con lo psichiatra a seconda delle necessità. L’altro contenitore si chiama lavoro. Tutti noi lavoriamo, preferibilmente in un modo manuale. Il lavoro è un grande terapeuta, ti fa scoprire tante tue capacità, tante possibilità, e il lavoro serve anche per mantenerci. Noi viviamo del nostro lavoro e dell’aiuto della gente. Al terzo contenitore do un nome forse eccessivo e altisonante, ma ci credo: si chiama cultura. Non vediamo praticamente mai la televisione però abbiamo molti libri e sproniamo i ragazzi a leggere perché vogliamo che riprenda dentro di loro il desiderio di conoscere e di farsi domande. Un domani, fuori da qui, non dovranno essere dei quadri da attaccare alla parete ma delle persone vive. La cultura è il desiderio di migliorarsi e di imparare.
Come deve essere una persona che esce da qui e si reinserisce nella realtà sociale?
Deve essere un “militante disadattato”. Militante perché deve sposare uno stile di vita che gli permette di segnare un passaggio fondamentale tra ciò che era prima e ciò che è diventato. Non esiste un alcolizzato che abbia imparato a bere poco, non deve bere per nulla. Militante è colui che tutto questo lo vive con un senso di appartenenza forte, se vogliamo anche gioioso, forse un filo snob, con nonchalance. Disadattato perché deve rinunciare ad essere massa, deve rinunciare a mandare il suo cervello all’ammasso, deve essere capace di saper vivere come minoranza. Non è vero che la maggioranza ha sempre ragione. Deve saper dire di no. Non è facile ma pensiamo al gioco d’azzardo in cui non si assume nessuna sostanza tossica. Che cosa allora entra in circolo nel tuo corpo? Un’idea! La convinzione che facendo quella cosa tu ti senta meglio. Il nostro compito è quello riuscire a costruire idee che permettano a queste persone di orientare la propria vita con convinzione.
Francesca Arca
Foto: Fabio Loi