Serie C – Torres, parla Mercadante: “Fame per i playoff, il girone si poteva vincere”
Al recente Nautic Event di Porto Torres in collaborazione col Programma Salude&Trigu della Camera di Commercio di Sassari lo skipper sardo, reduce dal giro del mondo in solitaria, racconta @City&City la sua impresa che l’ha portato sul podio del Global Solo Challenge
Andrea, partiamo da un numero: 120. 4 mesi in mare. Come si fa a stare in mezzo agli oceani così tanto tempo?
Eh non è facile! È stato molto molto impegnativo perché non ti passa più; 4 mesi, 120 giorni, 16 settimane è un tempo molto lungo. Diciamo che l’obiettivo è quello di correre, correre e ancora… correre per arrivare il prima possibile e, magari, anche davanti agli altri. Il tempo lo mangi e lo macini così; con le miglia, con la voglia di correre, perché sei in regata non sei in crociera, quindi hai pochi momenti per goderti le bellezze della natura. Anzi, si è sempre alla ricerca di burrasche. Io infatti mi ritengo un po’ cacciatore di burrasche, per andare più veloce possibile; sempre tempo cattivo quindi, preso con intelligenza e coraggio, nel modo giusto, per non addentrarsi troppo nella depressione, altrimenti le condizioni possono diventare molto complicate. È un lavoro di ricerca del percorso migliore, come si fa con Google maps, per dire. Si chiama “routing” in inglese, “routage” in francese; è la ricerca del percorso migliore tra queste depressioni, queste tempeste, per navigare veloci e sicuri.
Come e in quanto tempo hai preparato la barca? Raccontaci un po’ il processo di preparazione.
Questa è stata la parte più folle, perché un giro del mondo ci vuole minimo un anno per prepararlo, ma in carenza di risorse siamo arrivati fino all’ultimo, non volevo neanche più farlo. Un tira e molla “lo faccio, non lo faccio”. Alla fine è mia moglie che mi ha spinto a farlo perché mi ha detto “tanto anche se mancano le risorse ipotechiamoci la casa, l’importante è partire! Fatti questo giro così almeno torni più contento e non dobbiamo sopportarti più”.
Intanto sei stato un meraviglioso e incredibile spot per la Sardegna. Diciamolo pure.
Se è così ne sono felice. Abbiamo fatto 32 milioni di visualizzazioni sui social, però la barca l’abbiamo preparata alla fine in 2 mesi; 2 mesi sono pochissimi. Non si prepara un giro del mondo in così poco tempo, quindi è stato il punto dolente che mi ha affaticato molto perché ho perso molte ore di sonno per preparare la barca in questo tempo così stretto, con l’aiuto di un pool di amici strettissimo, ai quali devo tutto perché non sarei sennò riuscito a partecipare a questo giro del mondo; e sono comunque partito in affanno, con molta stanchezza e in difficoltà, grande difficoltà perché non eravamo pronti tant’è che siamo partiti con una settimana in ritardo rispetto alla data prevista. La partenza è stata il 18 novembre ma sarei dovuto partire l’11 novembre. Questi 7 giorni poi sono quelli che abbiamo regalato alla ragazza americana Cole Brauer che ha chiuso al secondo posto e noi al terzo. Quindi diciamo che sarebbero cambiate un po’.
Un lasso di tempo decisivo?
Sì, ma alla fine va bene così; secondo o terzo non mi cambia la vita. L’importante è aver finito questo giro in condizioni assolutamente insufficienti dove sarebbe stato più corretto ritirarsi per questa impreparazione. Quindi sono ancora più contento di averlo concluso con queste difficoltà aggiuntive enormi.
Hai fatto un miracolo.
Diciamo che è un miracolo, sì; sono stato anche molto fortunato, perché la barca ha tenuto molto bene.
A casa tua si respirava aria di mare nel vero senso della parola. Tuo padre Sergio è stato uno dei fondatori dello Youth Club di Cagliari. Come è nata la passione così viscerale per il mare?
Nessuno mi ha forzato. Io venivo portato ancora in carrozzina, a Marina Piccola al Poetto allo Youth Club, sono cresciuto lì; era un tempo in cui non esistevano i telefonini quindi le distrazioni erano poche e vivevo di pane e vela. A me piaceva molto il mare, mi trovavo bene, saltavo da una barca all’altra e tutta la mia adolescenza l’ho passata solo per pura passione lì fondamentalmente. Ho fatto di tutto in quel club finché un bel giorno mio padre mi ha comprato un 420 usato, e quindi per me è stato un regalo pazzesco e da lì sono andato avanti e a 14 anni ero già un po’ un veterano come dire. Si iniziava a fare regate a 14 anni da juniores, e appena li ho compiuti ho subito rischiato di vincere un titolo italiano finendo secondo; ho vinto due titoli europei e una marea di altre regate. Sono stato velista dell’anno juniores a 17 anni; a scuola me la cavavo bene; il patto era “l’importante è che sei promosso, anche se con il minimo ma promosso” e dopodiché “vai divertiti e continua ad andare in barca a vela” e così è stato ma senza forzature; non c’erano coach, non c’era nessuno quindi gli insegnamenti presi in banchina qua e là, captati.

Un autodidatta, praticamente.
Sì, assolutamente autodidatta.
Sei stato il quinto italiano di sempre a completare il giro del mondo a vela senza scalo e quindi a doppiare Capo Horn. Raccontaci il momento che abbiamo visto anche doppiato sui social quando sei arrivato a Capo Horn, è stata un’emozione unica, presumo.
Capo Horn è un luogo pazzesco dove non sei tu a decidere quando passare ma è la meteo che decide quando puoi passare, nella storia sono morte 10 mila persone censite e affondate 800 barche. Questo per indicare quel passaggio che si trova molto a Sud, vicino all’Antartide, dove convogliano due oceani, il sud atlantico e il pacifico con un fondale di 4000 metri che sale a 100 metri, una Cordigliera Delle Ande alta 4000 metri che deflette il vento e le correnti che si scontrano di questi due oceani e creano una miscela esplosiva che non ti permette di passare se non in quelle poche ore che ci sono di stasi tra una tempesta e l’altra. Dicci la verità, hai avuto paura? Mah delle tempeste un po’ si perché sono condizioni estreme e la paura è che è facile rompere qualche cosa, o trovarsi in difficoltà in acque fredde, ipotermia, con la barca magari distrutta, l’albero che è caduto, dove nessuno ti viene a prendere; quindi la paura è data dal fatto che sai che non c’è molto margine di errore, ma non paura in sé stessa per le condizioni meteo. Io in quelle ci sguazzavo benissimo, era la paura che la barca potesse avere dei danni, incidentali, che capitano. Oppure un’onda che ti rovescia e non ti permette di continuare e quindi di buttare al vento tutto il lavoro e di non portare a termine l’impresa. Questa la vera paura, ma per me il mare no, problemi assolutamente no.
La paura e la speranza. Componenti decisive in mezzo all’oceano. Quali sentimenti hanno prevalso in questi lunghi 4 mesi?
Sentimenti che ti passa la vita davanti molteplici volte perché lì arrivi veramente a toccare il fondo; ci sono dei momenti seri in cui sei molto depresso, con il morale a terra perché il tempo non passa mai e le condizioni a volte sono veramente estreme; però sono momenti brevi, per fortuna, che passano velocemente, poi ti riprendi e continui la tua corsa; Oppure momenti di intensa tristezza. Variano anche in base anche alla meteo. Perché vai sempre a cercare il tempo cattivo, quindi te li vai anche a cercare i momenti di difficoltà; ma fanno sì che dopo un giro del mondo, ti porti a casa un valore umano che non ha eguali dove dominano due parole: amore e rispetto per sé stessi, per gli altri, per la vita soprattutto, per l’ambiente. Questo è quello che ti resta.
Rispetto e amore anche per il mare?
Per il mare, certo. Cambia l’imprinting del tuo animo, della tua mente. Quando torni non sei più lo stesso, ti scivola tutto addosso perché mi sento molto più appagato e di questo ne gode in primis la famiglia; la famiglia soprattutto, perché mi vedono più sereno, più rilassato, più appagato. Hai raggiunto diciamo il tuo “Santo Graal”

Sei stato ripagato, eccome. Sei salito sul podio Global Solo Challenge, hai raggiunto il terzo posto. Però, ti ho sentito dire “ho digerito male il terzo posto”. Non dirmi che sei pronto a ripartire?
Esattamente, sì. Io sono un agonista puro quindi dico accetto di buon cuore questo piazzamento, per le condizioni in cui sono partito. Ho testato il campo, ho visto cose belle e meno belle; adesso so cosa è il giro del mondo, e mi sento pronto per rifarlo come dico io, nei tempi giusti, preparato come si deve, per portarlo a casa con successo. È il mio sogno e quindi ecco la voglia di migliorare il terzo posto;
Quando prevedi di ripartire?
Voglio tornare in mare subito; non devo perdere il contatto con il mare, costruire subito una barca nuova, un’Imoca 60 che mi permetta di partecipare al Vendée Globe. È un progetto molto costoso, ma con numeri mediatici enormi, n volte superiori a quelli che abbiamo portato a casa in questo giro del mondo con 32 milioni di visualizzazioni; 1 milione di interazioni nei social, 485 redazionali, ed avevamo, mi permetto di dire, le pezze nel sedere. Numeri già straordinari che possono crescere se la gara viene fatta come penso; Magari sarebbe la volta in cui non si deve più sentire dire da qualcuno che non sa dove sia la Sardegna nel mondo; stanco di sentirmelo dire. Tutti sanno dove è la Sicilia, dove è l’Italia, ma nessuno sa dove è la Sardegna. Siamo una delle terre più belle al mondo, la più longeva e dobbiamo promuoverla e la barca a vela è un veicolo straordinario per poterlo fare quindi spero me lo permettano per portare avanti un brand istituzionale come Vento di Sardegna in giro per il mondo, con il nostro marchio che è una vera eccellenza e farlo con coraggio, con perizia nautica, con grande fair play, con la nostra terra, con tanto orgoglio e portare a casa il risultato più importante.
Hai detto “In Italia non c’è la cultura del mare; di investire nel mare”. E le istituzioni?
Le istituzioni fanno le… istituzioni; quando si parla di soldi pubblici è sempre tutto molto complicato perché la burocrazia è alle stelle e in Italia, forse, molto più che altrove. Siamo una nazione ‘completa’ ma anche molto complessa; ma non voglio dirlo in senso negativo. Giusto fare le cose bene e con i dovuti passi. Diciamo che si può fare molto di più. E l’Italia non ha purtroppo questa cultura del mare; anche se la storia dice il contrario, anche se la vela è in un momento d’oro: da quella olimpica a quella oceanica. È uno sport che si associa bene a una coscienza green se parliamo di clima, di ambiente. E cosa c’è di più green di una barca a vela?
Riguardo invece un aspetto tecnico che ci interessa molto; ma in mare conta di più la messa a punto della barca o la fortuna?
La fortuna conta, e ce ne vuole sempre un pizzico. Però quando navighi per così tanto tempo conta fino ad un certo punto. Poi è la preparazione quella che conta; quella del mezzo, perché la barca non deve rompersi, e conta la preparazione e l’esperienza dello skipper che deve saper schiacciare sull’acceleratore, come in macchina quando c’è un rettilineo. In curva devi rallentare sennò vai fuori strada; in barca a vela è un po’ lo stesso quindi bisogna essere consapevoli di questo e accettare che una lunga maratona come il giro del mondo, anche da agonista puro, devi sapere quando staccare il piede dall’acceleratore, rallentare la barca quando serve; come ad esempio, prima di arrivare a Capo Horn, ho rallentato la barca a passo d’uomo per 24 ore per lasciar passare la tempesta che stava arrivando, mi sono accodato dietro come un ciclista con quella dietro che mi stava raggiungendo.. e quindi sono andato avanti, questo a una settimana di distanza da Capo Horn, perché li transita una distanza di 24, 36 ore, e sono andato a Capo Horn con la finestra meteo giusta e c’era vento leggero che è durato quella giornata lì. Quindi le scelte vanno fatte e ci vuole esperienza per saper gestire bene le situazioni in mare. È fondamentale per portare a termine l’impresa.
Hai parlato di skipper, non tutti sanno che sei stato sul Moro di Venezia con Paul Cayard nel ’92, nelle acque di San Diego, California. È stata un’esperienza meravigliosa anche perché quell’avvenimento ha fatto innamorare gli italiani della vela.
Esatto! È stato un master di vita pazzesco passare dalle derive, le classi olimpiche dove si va da adolescenti alla Coppa America che avevo 24 anni, ero tra i due più giovani del team. Entrare in un contesto così altamente professionale, così multietnico, è stato molto formativo quei due anni. Ho navigato a fianco di Paul Cayard per oltre 2000 ore, imparando cose pazzesche e ho anche dato a loro cose geniali, soluzioni geniali per migliorare le prestazioni della barca. Quindi ho partecipato a tutte le regate della Coppa America, abbiamo vinto la Vuitton Cup, non abbiamo vinto la coppa America per un soffio, ma il gioco della Coppa è questo, molto duro; American Cube ha vinto, siamo arrivati molto vicino, peccato che sia andata così come è andata la vita di Raul Gardini perché c’era in programma di partecipare almeno a un’altra coppa. Un grand’uomo, che mi ha insegnato tanto, e la cosa che mi ha insegnato di più è che “qualunque cosa tu voglia fare nella vita, falla sempre e comunque in grande, non limitarti mai”. Questa è una cosa che mi è rimasta impressa; nelle sue pillole di semplicità. Un uomo che andava in giro con un orologio da pochi euro e salutava l’ultimo degli inservienti allo stesso modo di come salutava, un metro dopo, il presidente degli Stati Uniti. Mi ha insegnato veramente tanto! Un uomo di grande classe.

Quali sono ora i tuoi prossimi obiettivi?
I prossimi obiettivi sono partecipare al nuovo giro del mondo e farlo come dico io; con una barca nuova, un’Imoca 60, partecipare al Vendée Globe, la regina della classe; una gara che hanno sempre vinto i francesi e mi piacerebbe essere il primo italiano a vincerla. Sempre stare con i piedi per terra, con molta umiltà, però sto lavorando sodo per portare a casa questo grande risultato; parliamo di una delle sfide sportive e umane più dure sul pianeta, quella del giro del mondo in solitario senza assistenza e senza scalo.In quel caso sarebbe di 2 mesi e mezzo, perché le barche sono molto più veloci quindi spero di trovare chi mi accompagni e mi dia le risorse anche finanziarie per portare a casa questo grande risultato che sarebbe un meraviglioso spot per la Sardegna anche per una questione di longevità sportiva perché adesso compirò 60 anni; lo dico con orgoglio, “guardami, sono a metà del mio percorso”, mi mantengo bene; l’esperienza conta più della forza nella vela. 10 anni fa, forse, questo giro del mondo non l’avrei portato a casa nelle condizioni in cui l’ho fatto. L’esperienza mi ha portato a risolvere problemi estremamente complessi a bordo, in tempi brevissimi. Quindi datemi un’Imoca 60, e porto a casa un grande risultato sportivo per la nostra isola. È una promessa.
Come disse Archimede, datemi una leva e vi solleverò il mondo.
A Si Biri, Andrea. E buon vento!