Ritrovare il coraggio… senza Fischnaller e Scotto! La Torres al lavoro per fare il salto di qualità
Tra chitarra rock, il Conservatorio a Sassari e installazioni a cielo aperto: l’intervista a Walter Cianciusi
Professore di musica elettronica al Conservatorio Canepa di Sassari e chitarrista degli Operation:Mindcrime del cantante Geoff Tate
Ciao Walter, partiamo da come sei arrivato a Sassari…
Non sono moltissime le cattedre di musica elettronica in Italia. Io ho studiato prima chitarra e poi musica elettronica in Conservatorio. Ho tentato per anni di diventare docente di musica elettronica. Finalmente, è capitata l’occasione a Sassari e non me la sono fatta sfuggire. La mia conterranea Maria Cristina De Amicis insegnava qui e, per via di vicende familiari, aveva deciso di tornare a casa.
Quindi hai iniziato con una supplenza…
Sì, il mio rapporto con il Conservatorio è iniziato come una sorta di supplenza. Poi si sono aperte altre chances per tenere in vita la cattedra di Cristina. Dalla graduatoria nazionale è venuto fuori il mio nome ed è arrivato il contratto a tempo indeterminato.
E di questi tempi non è poco.
Di questi tempi persino nel mondo del Conservatorio è un’eccezione! Sono stato particolarmente fortunato. È una terra e una città a cui sono particolarmente affezionato. Devo dire che ormai è una parte integrante del mio modo di essere e di vedere le cose. A Sassari mi trovo benissimo, in più ho trovato un team di collaboratori fantastico.
Sì. In realtà ho iniziato una sorta di approfondimento per ciò che concerne l’elettronica attorno ai primissimi anni 2000. Mi sono proprio sganciato da quello che era il mondo chitarristico e mi sono concentrato sulla composizione elettroacustica, in particolare seguendo un grande nome italiano Michelangelo Lupone…che è diventato il mio Maestro di musica elettronica e, appunto, di composizione elettroacustica. Tutto è nato per una passione smodata per John Cage. Da lì diciamo che si è aperta una voragine ed ho iniziato ad approfondire temi più diversi: dalla musica aleatoria fino a piccoli sistemi algoritmici in grado di rendersi autonomi e di generare suono e musica per un tempo sufficientemente lungo, parlo di mesi o addirittura anni. Devo dire che è l’altra faccia di Walter: un Walter degli anni Ottanta ancora sopravvive, ma c’è anche un Walter “attuale” che si occupa di musica sperimentale ed elettronica da ormai molti anni.
E quale dei due Walter prevale? (risate… ndr)
In realtà, sono due facce di una stessa medaglia come si può intuire, non ce n’è una prevalente. Un fatto strano è che spesso si tenta di creare una commistione tra questi due universi: rock e musica elettronica. In tanti mi hanno chiesto “perché non metti insieme le due cose? Perché non metti un po’ di chitarra nell’elettronica sperimentale e viceversa?”. Ma mi trovo assolutamente a mio agio quando i due mondi restano confinati, a sé stanti. Difficilmente riesco a immaginare una musica che sia al tempo stesso davvero sperimentale e orientata a una diffusione popolare. Trovo che i due mondi non facciano l’uno per l’altro. A volte mi chiedo se sia una mia pecca… Quando mi chiedono di inserire dell’elettronica nella musica rock che suono, sono sempre molto scettico. Quando metto le mani sull’elettronica lo faccio per sperimentare davvero, quindi non posso pormi un limite di genere o un limite strutturale, tantomeno un target specifico per ciò che concerne la fruibilità dell’opera.
Quali sono state le tue maggiori influenze?
Allora, come ti dicevo io ho adorato John Cage, e da lì ho preso spunto per approfondire poi l’arte concettuale, quella che può essere ricondotta alla scuola di pensiero Fluxus: una schiera di compositori/artisti in senso lato che in parte provengono da New York, dalla scuola che Cage aveva lì. Ma in generale mi interesso di tutte le scuole d’arte “allargata” che hanno portato il tema dell’installazione d’arte al centro dell’attenzione.
Da profano: c’entra qualcosa Giorgio Moroder che è forse uno dei più noti compositori di musica elettronica?
No, io mi riferisco più ad una musica sperimentale. Posso farti qualche nome come Iannis Xenakis, fra i più recenti c’è Ryoji Ikeda. Sono nomi che non fanno parte del mainstream, non sono conosciuti nel filone elettronico più commerciale, però sono pietre miliari dell’elettronica sperimentale di cui parlavo. Io mi occupo davvero di installazioni sonore d’arte, opere interattive che tendono più a consolidarsi in un contesto museale che non in quello di un concerto tradizionale. Quindi, davvero, sono due mondi molto, molto distanti. Spesso è proprio quell’aspetto performativo ad essere rinnovato e reinventato, così come anche la fruizione del pubblico, che non avviene attraverso l’ascolto tradizionale, lineare e anche gerarchicamente orientato. Non c’è più un palcoscenico e una platea che resta in attesa. L’aspetto interattivo è per me determinante.
Quello che dici sembra tanto affascinante quanto ‘inaccessibile’ al pubblico, considerando il concetto di musica che abbiamo qui in Italia…
Ma guarda, sì e no. Certo, è un pensiero che proviene da un mio punto di vista, dall’accademia, questo è innegabile, perché c’è bisogno di un approfondimento estetico che di solito avviene all’interno di una scuola d’arte. Devo dire però che oggi, grazie alle nuove tecnologie, è possibile pensare ad una musica elettronica, un’arte interattiva in generale, che occupi proprio gli spazi pubblici. Un articolo del CRM di qualche anno fa (Centro Ricerche Musicali di Roma, nell’ambito del quale Cianciusi è attivo) si intitolava “Arte pubblica negli spazi pubblici” e aveva proprio a che fare con l’idea di poter occupare gli spazi tipici della vita quotidiana come piazze e giardini pubblici o, semplicemente, luoghi come porzioni di edifici destinati ad altro, con delle opere che denunciano la loro presenza a lungo termine. Chi passa per quelle stanze, piazze, giardini prende atto che ci sono suoni che non fanno solitamente parte di quell’ecosistema.
C’è un’installazione sonora d’arte permanente che hai realizzato?
Ce n’è stata una per molti anni nel cortile dell’Università di Sassari, un’installazione che si chiamava Still Life. Realizzata grazie ad un rapporto splendido che si era creato con il Rettore. Poi c’è stato un cambio di direzione e da quel momento ancora non ho avuto modo di ricostruire un rapporto fruttuoso con l’istituzione. È stata una delle cose più carine che abbiamo fatto in Sardegna sul tema.
Adesso è in programma una ad Alghero…
Ad Alghero c’è un sistema di torri, strumento utilizzato per funzioni altre. C’è una torre in prossimità del lungo mare, forse la più prossima al lungo mare, dove viene attualmente ospitato un ufficio informazioni. In quella ci sarà un’installazione a partire da settembre, realizzata da me ed un mio collega cagliaritano Riccardo Sarti, a quattro mani. Dovrebbe avere a che fare con una tradizione algherese, ma non voglio svelare troppo, e vorrebbe denunciare anche una nostra specifica attitudine all’interazione col pubblico.
Quindi il pubblico può interagire con queste installazioni sonore permanenti?
La gran parte delle mie installazioni si configura come interattiva, questa lo sarà senz’altro.
Un esempio di interazione del pubblico con un’installazione…
Sì, di solito queste installazioni sono in grado di rilevare molti aspetti: anzitutto la presenza, con dei sensori di prossimità. Poi, riescono a regolare un proprio livello di pressione sonora sulla sorta della pressione sonora circostante. Le mie sono installazioni particolarmente “timide” perché emergono soltanto nel momento in cui c’è sufficiente silenzio circostante. Se le condizioni al contorno sono tali da permettere l’ascolto, allora il suono emerge e si sviluppa in maniera consistente. Quando invece non c’è un livello di attenzione sufficiente, l’installazione tende a scomparire, a rimanere sullo sfondo. Un’altra possibilità è quella del contatto fisico. Questa specifica installazione, che ci sarà ad Alghero, prevede anche un contatto fisico con delle porzioni di gomma che pendono dalla torre e fondamentalmente riescono a fungere da guida d’onda per il suono. Il suono passerà attraverso questi condotti di gomma (che sono al tempo stesso diffusori del suono e sensori del contatto fisico con il pubblico), ma quello che è più interessante è che questo contatto fisico o le condizioni di pressione sonora in presenza del pubblico, generano un’evoluzione algoritmica del suono che solo in parte è predicibile. Proprio in questo margine sta il fascino di un’opera del genere.
Quindi un’installazione sonora d’arte fa leva sull’emozionalità delle persone?
Assolutamente sì. Dovrebbe essere proprio quello il punto ultimo. Arriviamo ad emozionare attraverso un sistema sintattico rinnovato. Forse la difficoltà sta nel consegnare il nuovo sistema sintattico e allo stesso tempo l’opera che lo realizza.
A parole sembra qualcosa di molto astratto.
Quello che intendo dire è che se compongo, per esempio, una canzone per Geoff Tate, so già che devo rimanere all’interno di una determinata sintassi: non posso immaginare di rinunciare alla tonalità di impianto, è il primo principio di riferimento come non posso pensare di non modulare ai toni vicini in un certo momento della canzone; lo stesso vale per il brano che immagino sempre con un ritornello o una strofa.
Nel momento in cui consegno il brano, il mio margine di intervento deve comunque rimanere all’interno di questi paletti che ci siamo detti. Consegno quindi una mia “svisatura” su un sistema sintattico che è già consolidato e noto. Chi riceve il brano (il pubblico) non deve rimettere in gioco la sua capacità di intendere che cosa è la musica, ma semplicemente godere di quella specifica deriva.
Invece qui la pretesa per le installazioni d’arte, ma in generale per tutta la musica sperimentale, è quella di consegnare un sistema sintattico nuovo che sia alternativo al sistema teorico-musicale che diamo per scontato. E al contempo, dopo aver fornito il nuovo sistema sintattico, fornire anche un manufatto che lo dimostri, che lo giustifichi e che lo glorifichi.
Un manufatto che lo completi?
Che lo completi ma che ne sia anche prova tangibile. Non esiste più la tonalità, esistono queste altre regole di comportamento che, magari, sono schiave non più di un ritornello-strofa, ma di un contatto del pubblico che genera una funzione diversa dell’algoritmo. La mia opera specifica vuole essere dimostrazione di quel sistema sintattico che consegno in quel momento.
Quando vedremo l’opera ad Alghero?
Da settembre, probabilmente fino ad Natale. Si troverà all’interno della Torre, Ufficio informazioni turistiche.
Quindi lavori in due mondi completamente diversi uno dall’altro. Quanto hai portato della tua esperienza con Geoff Tate?
Be’, dal punto di vista creativo zero, dal punto di vista tecnico tutto. La mia capacità di gestire l’elettronica sul palco ed il sistema che usiamo per sincronizzarci, derivano dalla mia conoscenza specifica del mondo elettronico ed elettroacustico. Ma non posso dire che ci sia un link tra il mio spunto creativo quando scrivo per Geoff e il mio spunto creativo quando scrivo per me stesso nel mondo elettronico.
Come vivi questa tua “dualità” lavorando come docente al Conservatorio di Sassari?
Mi è capitato a volte di veder arrivare in classe personaggi che intendevano studiare con me solo per via delle mie esperienze pregresse nella musica pop/rock. Niente di più sbagliato! (Risate) Alcuni sono rimasti delusi nel vedere tradite le loro aspettative pseudo-chitarristiche, altri invece sono rimasti affascinati dal mondo sperimentale che ho tentato di suggerire.
Mai dire mai!
Quanti allievi hai ora?
Quest’anno dovremmo orientarci sulla trentina, che in Conservatorio sono moltissimi per una sola classe.
Geoff Tate è uno dei più conosciuti cantanti della scena metal mondiale. Sei diventato il chitarrista della sua band. Come lo hai conosciuto?
C’è un promoter per l’Italia e alcuni paesi europei che condividiamo io, la mia band Headless e Geoff con il suo progetto. È una vicenda buffa: questo promoter mi ha chiamato e mi ha detto che c’era la necessità di accompagnare Geoff Tate in alcuni concerti. Io ho risposto “ah, grazie! Quindi dobbiamo aprire dei concerti per lui…” e lui “no, devi suonare per lui”. Lui conosceva la mia passione per i Queensrÿche e quindi ho immaginato si trattasse di uno scherzo di pessimo gusto, un fake, così ho riagganciato il telefono. Poi mi ha richiamato e mi ha fatto capire che non era uno scherzo ma c’era davvero la necessità di accompagnarlo in alcuni concerti. Questo perché la band americana non poteva arrivare in Europa per le date, che risultavano distanti una dall’altra. Perciò il tutto era molto complicato dal punto di vista logistico e economico.
Infatti molti artisti hanno la band americana e la band europea.
Sì, esatto. E quindi immagina la mia faccia. Un fan come te che ad un certo punto si vede arrivare Geoff Tate a casa…Ho detto ovviamente di sì. La band di supporto per queste poche date era proprio la mia, gli Headless, ovviamente senza il cantante perché al suo posto ci sarebbe stato logicamente Geoff. Il nostro cantante ufficiale è Goran Edman, un cantante che ha suonato tra gli altri con Yngwie J. Malmsteen
Non posso non chiederti della tua band gli Headless.
Gli Headless sono una band che ha sempre rappresentato il mio habitat naturale come chitarrista. Si trattava in origine del gruppo formato al liceo assieme al mio amico, socio e alter ego chitarristico Dario Parente, e a mio cugino Enrico Cianciusi (batterista). Dopo anni di silenzio ci siamo ritrovati nel 2011 e abbiamo dato una veste internazionale alla line-up.Ora con noi c’è Göran Edman alla voce (ex Malmsteen, John Norum) e Martin Helmantel (Elegy) al basso. Suoniamo Progressive Metal e siamo appena tornati dal tour di supporto al nostro ultimo album intitolato Square One.
Con Geoff Tate hai iniziato a collaborare nel 2018, giusto?
Esatto. Insomma, io vado a prendere Geoff all’aeroporto di Roma e lo porto a casa mia ad Avezzano per fare le prove. A 15-16 anni ero talmente in fissa con i Queensrÿche che distribuivo copie del loro disco a chiunque. Chi l’avrebbe mai immaginato…
5 anni di collaborazione con uno dei tuoi idoli musicali. Del personaggio conosciamo tanto. Raccontaci invece la persona.
Sì, questa domanda è molto interessante, perché al principio sono rimasto veramente folgorato dalla sua attitudine a far star bene il prossimo in un contesto sociale qualsiasi, come – ad esempio – all’arrivo qui ad Avezzano: ci sediamo al bar o al ristorante, lui ha come primo obiettivo quello di equilibrare i rapporti sociali, è molto attento a chi fa cosa e cerca di mettere tutti a proprio agio.
Il 29 aprile ci sarà questo concerto a Cagliari, con grande gioia dei fan del metal.
Avevamo tentato anche in passato di realizzare questo evento a Cagliari. Era da tempo che se ne parlava ma non c’erano le giuste condizioni, perché ovviamente bisogna anche arrivare in Sardegna e non ha senso per Geoff arrivare lì, fare una data e togliere le tende. Ha sfruttato l’idea della data cagliaritana per fare una piccola vacanza. Infatti avrà dei day-off prima e dopo la data proprio per godersi un po’ la Sardegna.
Si godrà il mare in Sardegna a primavera. In ogni caso vedrà le nostre bellezze.
Be’, sì. Si può vedere tanto anche ad aprile, io ricordo delle bellissime giornate a fine aprile. Ho avuto modo di accennargli qualcosa…
Magari vedendo i nuraghi troverà l’ispirazione per comporre nuova musica!
Chi lo sa, Riccardo Sarti sta architettando una degustazione perché suo fratello si occupa di vini e Geoff è abbastanza esperto in materia e gli piace molto. Io sono andato a trovarlo a Seattle solo una volta e fare delle prove. Tra l’altro, lui ha un altro business che gli consente di cambiare continuamente casa, vive un po’ come un “circense”.
In genere gli americani non sono molto “stanziali”, cambiano spesso casa…
Sì, sono molto più flessibili di noi. Quindi sì, è più frequente che lui sia qui in Europa, ha molti amici qui in Italia e anche in Irlanda, in Germania e in Alsazia.
Non avete previsto nessuna data a Sassari?
No ma potremmo farla in Sala Sassu al Conservatorio. (scherza)
Domanda di alleggerimento: hai imparato qualche parola di sassarese?
Ajò! Di più specifico ora non mi viene in mente nulla, ma ho apprezzato molto le tradizioni, in particolare la cucina.
E oltre la cucina?
In verità ho apprezzato molto il clima abbastanza rilassato del Conservatorio. Lavoro senza pressioni, anzi si bada molto alle esigenze dei docenti, tenendo sempre aggiornata la strumentazione del dipartimento. Si sono costruiti degli ottimi rapporti umani con tantissime persone.
Questa è una cosa determinante per la tua professione…
Per me il Conservatorio è una seconda famiglia, sono molto legato a tanti personaggi chiave. In realtà quando penso a Sassari penso alla musica, alle conoscenze e agli amici. Difficilmente penso al luogo e a quello che mi può offrire in termini di bellezze naturali ed architettoniche, Sassari per me è stato un punto di svolta.
Cosa sei riuscito a vedere finora in Sardegna?
Qualcosa ho visto ma non molto.
Nella zona nord ovviamente mi hanno portato a Stintino, Castelsardo e anche ad Olbia. Ho battuto bene la zona di Cagliari, e anche Villasimius. Conosco poco la zona di Nuoro, ci sono stato solo una volta.
Ti sentiresti, da sardo di adozione, di dare un consiglio alla città di Sassari?
Oddio, questa è impegnativa. Consigli, no. Quello che riesco a cogliere dall’esterno è che i trasporti e la mobilità potrebbero avere un deciso upgrade. Comunque, il Conservatorio di Sassari è la mia isola felice, lì è tutto ben organizzato.
Ci vediamo a Cagliari il 29 aprile?
Ci puoi contare!
Allora, iniziamo il conto alla rovescia per il concerto di fine aprile.
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