Manuela Raffatellu, dottoressa dei due mondi
Manuela Raffatellu, la microbiologa e immunologa sassarese, vive e lavora a San Diego, da quattro anni è professore ordinario nella prestigiosa Università della California. In prima linea nella lotta al Covid, ci parla dell’emergenza affrontata e del suo percorso professionale
di Giada Carta
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Per chi ancora non ti conoscesse, potresti riassumere chi sei e di cosa ti occupi ora?
Mi chiamo Manuela Raffatellu, ho 45 anni, mi sono laureata a Sassari con 110 e lode in Medicina e Chirurgia nel 2000. Vivo negli Stati Uniti, a San Diego – California, dove faccio ricerca scientifica nel settore della microbiologia e dell’immunologia. Attualmente, sono professore ordinario nella facoltà di Medicina dell’Università della California a San Diego (UCSD), una delle migliori università al mondo. Dirigo un laboratorio di 8-10 persone provenienti da tutto il mondo.
Quando hai scoperto di voler fare il medico?
Ho deciso di studiare medicina all’ultimo anno del liceo. Mi è sempre piaciuta l’idea di fare ricerca scientifica e volevo conoscere i meccanismi della biologia e della fisiologia dell’organismo umano. Non vedo pazienti, ma con le mie ricerche posso contribuire a capire meglio come il nostro sistema immunitario combatte le infezioni e come alcuni batteri riescano ad evadere le nostre difese e causare delle malattie.
Da quanto tempo vivi negli Stati Uniti?
Dal 2002. Quando sono partita pensavo di rimanere un paio d’anni per imparare e poi rientrare in Italia. Non sono riuscita a rinunciare a tutte le opportunità che mi sono state offerte negli Stati Uniti.
Quali sono i luoghi dove hai lavorato e quale di questi ti è rimasto più caro?
Durante il mio percorso di studi, ho lavorato all’Università di Sassari e all’Università di Copenaghen, grazie al progetto Erasmus della Comunità Europea. Dopo la laurea, ho lavorato come postdoc alla Texas A&M University e all’Università della California a Davis. Ho iniziato la mia carriera come professore e capo di laboratorio all’Università della California a Irvine, e infine dal 2017 sono stata reclutata all’Università della California a San Diego. Sono in California dal 2005, ed ho prestato servizio già in tre Università differenti. Tutti i luoghi dove ho lavorato mi sono rimasti cari, per via delle persone meravigliose che ho incontrato nel mio percorso.
Trovi differenze nel tuo ambiente di lavoro da quello dell’Italia?
Una differenza è che qui tutte le università come i laboratori sono ambienti molto internazionali, con persone provenienti da tutto il mondo. La mobilità è un aspetto essenziale del nostro lavoro. È molto raro trovare qualcuno che abbia fatto tutto il percorso di studi e la carriera nella stessa università.
In che modo si investe sulla Ricerca negli States rispetto all’Italia?
Gli investimenti per la ricerca in USA sono nettamente superiori. Per la ricerca in campo medico, i finanziamenti arrivano soprattutto dall’NIH, il National Institute of Health. Riuscire ad ottenere finanziamenti è un processo molto competitivo, ma in genere prima o poi, se un progetto è valido, si riesce a finanziarlo e a portare avanti il lavoro. Ci sono molte opportunità di finanziamento per i giovani, e adesso chi è assunto da un’università nel mio settore può contare su un pacchetto iniziale di circa 1,5 milioni di dollari. In questo modo, si riesce ad attirare i giovani più promettenti. Dubito che questo livello di investimenti esista in Italia.
Parliamo di Covid-19
Il Covid è un argomento di stretta attualità. In che modo lo state affrontando oltreoceano?
Con il tracciamento e con le vaccinazioni a tappeto. Nella mia Università, ad esempio, ci sono delle macchinette da cui si può prendere un kit per farsi da soli il tampone. Prima di essere tutti vaccinati, facevamo un tampone molecolare alla settimana, con il risultato in 24 ore. Poi abbiamo incentivato il telelavoro, in modo da ridurre il numero di persone nel Campus. Per quanto riguarda i vaccini, nel mio laboratorio siamo tutti vaccinati con due dosi. Anche i miei amici e colleghi sono tutti vaccinati. Secondo le ultime linee guida, tra persone vaccinate potremo incontrarci senza mascherina al chiuso in tutta sicurezza. Dopo un anno difficile, i casi sono crollati e stiamo tornando alla normalità, c’è molta fiducia.
Soprattutto… Quando vi siete resi conto che questa era una pandemia e che stava cambiando il mondo?
In molti paesi c’è stato uno scetticismo iniziale perché si pensava che si trattasse di un problema limitato alla Cina. Quando il virus si è diffuso in Italia e c’è stata l’esplosione dei casi negli ospedali italiani, gli Stati Uniti erano ancora tranquilli. Ho raccontato, qui in America, quello che stava succedendo in Italia ma, esattamente come era successo in Italia quando si pensava che l’epidemia fosse localizzata in Cina, la gente non riusciva a credere che il virus avrebbe travolto gli USA. Penso che negli USA si siano resi conto del problema quando il virus ha travolto la costa Est, in particolare New York, lo scorso marzo.
C’è stata la corsa al vaccino. Dagli ultimi aggiornamenti sono gli Stati Uniti d’America ad aver somministrato il maggior numero di dosi, con più di 280 milioni, di vaccino. Con Biden si è accelerato ed entro luglio ci saranno dosi per 300 milioni di americani. Cosa è cambiato col nuovo inquilino della Casa Bianca su questo fronte?
In realtà la campagna di vaccinazioni era già iniziata con Trump ed è stato Trump che ha promosso gli investimenti sui vaccini. La differenza è che ora c’è un Presidente che non minimizza il COVID, che ha reso le mascherine obbligatorie a livello federale e che si sta impegnando in prima persona per la campagna di vaccinazioni. Biden ha detto che il 4 luglio, la festa dell’Indipendenza, saremo anche liberi dal virus. La campagna di vaccinazione prosegue spedita, con oltre 130 milioni di persone che hanno completato il ciclo di vaccinazione a fine maggio. Speriamo si continui in questa direzione.
È meglio fare una sola dose di vaccino ed immunizzare più persone al 50% oppure fare i due convenzionali?
Qui negli USA procediamo spediti e stiamo facendo le dosi per il vaccino Pfizer e Moderna, e una dose per il vaccino di Johnson & Johnson, secondo le modalità e tempistiche stabilite dai trial clinici. In Inghilterra hanno fatto la scelta di vaccinare quante più persone possibili con una dose. È stato un rischio perché questa modalità non era stata studiata nei trials, ma sembra che i risultati siano stati buoni e che i casi siano diminuiti. La scelta è stata dettata da una situazione di emergenza e dalla penuria di vaccini, altrimenti non c’è dubbio che fare il numero di dosi che è stato stabilito nei trial clinici è la procedura ottimale.
Ed ancora, visto che la copertura del vaccino dura circa un anno, se non si riuscisse a vaccinare tutti, non sarebbe meglio comunque allentare le restrizioni e conviverci. In difetto non si rischierebbe di stare in continua emergenza?
Prima di tutto, non si sa quanto dura l’immunità dal vaccino. Potrebbe benissimo durare molto più di un anno e potrebbe benissimo conferire un’immunità sufficiente da evitare le terapie intensive e i ricoveri in ospedale anche a lungo. Io sono ottimista che l’immunità duri più a lungo. Il vaccino è l’unica soluzione per liberarci dal virus, i dati sono molto incoraggianti. Purtroppo questo virus è estremamente contagioso e molte persone finiscono in terapia intensiva e in rianimazione in contemporanea, per cui se si apre troppo in fretta questo è il risultato che ci aspetta. Qui in California siamo arrivati alla saturazione delle terapie intensive dopo le feste natalizie, ma la situazione è migliorata molto anche grazie ai vaccini. Non siamo continuamente in emergenza, l’unica restrizione è l’uso della mascherina. Adesso i ristoranti, i bar e le palestre sono aperti senza restrizioni all’aperto e a ridotta occupazione al chiuso. Come dicevo, stiamo tornando piano piano alla vita normale e spero che questo succeda presto anche in Italia.
Gli Stati Uniti sono un po’ il termometro di quello che accade nel mondo. Cosa dobbiamo aspettarci per i prossimi due anni?
Penso ci aspetti un graduale ritorno alla normalità, soprattutto grazie ai vaccini. Qui si inizia già a intravvederla. Nella mia università si parla già del rientro in presenza del personale non essenziale nel Campus a partire da giugno. A settembre, tutti gli studenti dovrebbero riprendere le lezioni tradizionali. Per quest’anno, i miei interventi ai congressi sono tutti virtuali, ma dalla prossima primavera-estate dovrebbero essere di persona. Non vedo l’ora di ritornare a viaggiare ed incontrare le persone come prima.
Curiosità
Domanda fatidica: torneresti a lavorare in Italia col tuo bagaglio di esperienza?
Non lo escludo, se si dovesse presentare la giusta opportunità.
La cultura americana è molto diversa dalla nostra. Che cosa ti ha colpito maggiormente del loro modo di vivere e cosa ti ha lasciato perplessa?
Non esiste una cultura americana. L’America è estremamente multietnica, un melting pot, un crogiolo di diverse culture. Anche io, pur mantenendo la cittadinanza italiana, sono una cittadina americana dallo scorso giugno. Quindi, la caratteristica più importante della cultura americana è la mancanza di omogeneità, la diversità è la forza degli Stati Uniti. Questa è la ragione per cui in Europa, al di fuori dell’Italia, mi sento straniera, ma negli Stati Uniti mi sento a casa.
Descrivici la tua giornata “made in Usa”.
Trascorro la mia giornata prevalentemente al computer, a leggere e a scrivere lavori scientifici e richieste di finanziamento. Mi incontro (per lo più in videochiamata dallo scorso marzo) con i miei postdoc, studenti e colleghi. Tutti i giorni faccio almeno una passeggiata di 45 minuti oppure un altro tipo di attività fisica, per ora da remoto o all’aperto. Sono fortunata perché a San Diego il clima è splendido tutto l’anno.
Quando sei stata l’ultima volta in Sardegna?
A Dicembre del 2019. Adesso che sono vaccinata spero di tornare presto.
Hai ricevuto il Candeliere d’Oro nel 2014. Vuoi raccontarci questa esperienza?
È stato molto bello tornare a Sassari per il Candeliere d’oro speciale per meriti scientifici e ricevere l’abbraccio della mia città. Sono molto grata al sindaco di allora, Nicola Sanna, per avermi conferito questo onore. È stata una cerimonia molto emozionante, nel cuore di Sassari e durante un periodo di festività così importanti. Ho ricevuto diversi premi per la mia carriera, ma la cerimonia di consegna del Candeliere e la Faradda il giorno dopo vista dal Palazzo di Città sono stati dei momenti davvero unici.